Monday, March 12, 2007

Mastella e la “ggente” di Santoro

Bisogna avere il coraggio di dirlo chiaro e forte. Le parole di Michele Santoro sono sacrosante. Che i politici se ne facciano una ragione e si affrettino a riabituarsi a parlare con la gente. Perché non se ne può proprio più di chi si rifiuta di parlare con Marco Travaglio o con Vauro, che com’è noto rappresentano la gente, anzi la “ggente”, in lungo ed in largo, sopra e sotto. D’altro canto, Dio e Cappon glielo hanno ridato, il microfono, a Michele. E, come si dice, guai a chi glielo tocca. Per grazia di Prodi e volontà della nazione Santoro possiede una trasmissione libera, fatta da liberi ed indirizzata a spiegare ai liberti che la seguono quanto possono essere sfortunati ed imbecilli quelli che non possono o non vogliono abbeverarsi a tanta libertà. Michele vuol fare un programma di “faziosi comunisti”?
E’ nel suo diritto. Lo vuole realizzato da “faziosi froci”? Ne ha facoltà. Vuole che i comunisti ed i froci siano anche un po’ stronzi? Nessuno lo può e lo deve impedire. Che tra la “ggente” non ci stanno i faziosi, i comunisti, i froci e gli stronzi? Ci stanno, ci stanno! Ed allora i politici non facciano tanto gli schizzignosi ed invece di parlare solo con i portaborse abbiano l’umiltà di dialogare con il popolo del Carlo Alberto di “Anno Zero”.
Quanto a Clemente Mastella, che si è incazzato ed ha abbandonato la trasmissione nel bel mezzo della diretta, la smetta con questa sua arroganza del potere. Si lasci mazzolare da Travaglio e spernacchiare da Vauro. E se non lo vuol fare per far contento Michele, lo faccia almeno per rispetto di se stesso. Gli è piaciuto entrare nel governo Prodi in qualità di ministro della Giustizia? E adesso paga. Chi per i mari del centro sinistra va, questi pesci prende. In faccia.

La natura cambiata del governo

Fino alle settimane scorse il governo era fondato su una maggioranza autosufficiente. E non aveva altro compito che realizzare il programma con cui aveva vinto, sia pure per pochissimi voti, le elezioni politiche. Nessuno ha dimenticato le orgogliose rivendicazioni sulla natura chiusa ed autonoma della coalizione pronunciate a suo tempo in continuazione da Romano Prodi. Così come tutti hanno ancora ben presente l’affermazione di Massimo D’Alema precedente il voto del Senato sulla politica estera che ribadivano come la maggioranza fosse obbligata a dimostrare la propria capacità di andare avanti senza apporti esterni di sorta.
La crisi risolta con il rinvio alle Camere e con la ritrovata fiducia ha però avuto come effetto principale la cancellazione della natura politica iniziale dell’attuale centro sinistra. L’autosufficienza è stata abbandonata. Non perché nel frattempo sia intervenuta la sortita del ministro dell’Interno Giuliano Amato con la sua proposta delle maggioranze variabili. Ma perché, per tacita ammissione di tutti i partiti della coalizione, quella che doveva essere la caratteristica principale ed immutabile del governo è stata considerata superata e decaduta. Il programma originario prima è stato frettolosamente sostituito da quello dei 12 punti. Ed anche quest’ultimo è stato rapidamente dimenticato sotto l’incalzare dei contrasti interni della coalizione.
La vecchia natura politica, in sostanza, è stata sostituita da una nuova natura. E tutto è avvenuto non in contrasto, aperto o nascosto, tra i partiti ed il Presidente del Consiglio ma su iniziativa diretta di Romano Prodi con il silenzio-assenso di tutte le componenti del centro sinistra.
La novità è che il governo si comporta oggi come se fosse un esecutivo tecnico dal compito delimitato e con scadenza prefissata. Il Presidente del Consiglio punta sul sostegno dell’opposizione per superare lo scoglio contingente del voto del Senato sulla missione in Afghanistan. Ma per il resto evita accuratamente di assumere qualsiasi iniziativa tranne quella che riguarda l’identificazione delle modifiche da apportare alla legge elettorale. In sostanza, quindi, è come se la crisi delle settimane scorse si fosse conclusa con la caduta del governo di centro sinistra e con la formazione di un governo tecnico incaricato di realizzare la riforma elettorale e portare il Paese alle elezioni entro il prossimo anno.
Solo che la compagine ministeriale è quella di prima e che il Presidente del Consiglio è lo stesso.
Alleggeriti di qualsiasi peso e ruolo politico ed incaricati esclusivamente di gestire l'ordinaria amministrazione in attesa di una nuova e chiarificatrice consultazione elettorale. Serve a qualcuno questa bizzarria? A Prodi ed ai suoi ministri consente di conservare le poltrone. Al centro destra di continuare a sfruttare a proprio vantaggio lo stato di debolezza dell'esecutivo.Al Paese di sapere che questo sfinimento non durerà all'infinito ma solo per altri dodici mesi.

Wednesday, March 07, 2007

La quinta colonna dei fondamentalisti

Si poteva prevedere? Forse il rapimento di un giornalista non si poteva immaginare. Ma che la guerriglia talebana in Afghanistan potesse lanciare un attacco contro il nostro Paese alla vigilia del voto del Parlamento sul rifinanziamento della missione militare a Kabul, non solo era prevedibile ma addirittura scontato. Chiunque avesse avuto un minimo di sale in zucca avrebbe evitato, dopo la crisi delle settimane scorse ed a pochi giorni da un voto al Senato che rischia di riaprire la ferita a malapena suturata, di manifestare incertezze sulla scelta del governo di piena lealtà alla Nato. Nessuno pretendeva che il ministro degli Esteri Massimo D'Alema facesse salti di gioia alla notizia delle stragi di civili afghani a causa di bombardamenti sbagliati da parte degli aerei Usa! Ma, proprio in un momento così delicato, ci si sarebbe aspettato dal responsabile della Farnesina un atteggiamento più prudente e misurato. Sicuramente addolorato per le morti inutili provocate per errore ma anche comprensivo della estrema difficoltà delle truppe americane e di tutti gli alleati Nato, italiani compresi, di operare in un terreno pieno di insidie ed esposto alle facili infiltrazioni e strumentalizzazioni di ogni particolare organizzazione del fondamentalismo islamico.
Invece D'Alema, per compiacere quella sinistra antagonista ed oltranzista che chiede ormai da tempo il ritiro degli italiani dall'Afghanistan, cioè per banali esigenze di politica interna, si è messo a recitare la parte dell'antiamericano, di quello che protesta per i raid aerei, che chiede la commissione internazionale e lascia intendere che ad ogni giorno che passa la linea dell'Italia si allontana progressivamente da quella degli Stati Uniti. In pratica, il nostro ministro degli Esteri, seguito a ruota da quella sinistra che intendeva blandire, ha lanciato raffiche di segnali per dimostrare che il nostro Paese non è più disposto a seguire Bush sulla strada dei conflitti, ed è pronto ad allentare i legami dell'Alleanza Atlantica e recuperare la propria piena ed assoluta autonomia in politica estera.
I talebani non hanno fatto altro che recepire questi segnali e comportarsi di conseguenza. Prima hanno tentato di compiere un attentato terroristico nei confronti dei nostri soldati fallendo solo per una serie di fortuite circostanze. Poi hanno ripiegato sul rapimento del giornalista de “La Repubblica”. Probabilmente calcolando che il sequestro di un inviato di un grande giornale della sinistra può essere molto più utile da un punto di vista mediatico e politico. Oggi la Camera, sia pure tra mille tensioni, voterà sicuramente in favore del decreto sulla missione. Ma tra una settimana di preoccupazioni e di pressioni per la sorte del nostro collega, quale potrà essere l'esito della votazione di Palazzo Madama? I talebani, in altri termini, si sono messi nelle condizioni di dare scacco matto alla Nato. Possono sperare di costringere l'Italia a fuggire da Kabul. O, in alternativa, possono dimostrare di aver riaperto la crisi di governo in un paese occidentale. Tutto grazie alla sinistra estrema del nostro Paese ed a chi, come D'Alema, sconsideratamente la blandisce.

La terra dei matti

Casta di antipatici? Più che altro la sinistra italiana sembra essere una terra di matti. Prendiamo i suoi giornali ed i suoi giornalisti. “Il Riformista”, da quando è diretto da Paolo Franchi ed ispirato da Emanuele Macaluso, si comporta come se si chiamasse “Il Socialista” e fosse l’organo della vecchia corrente migliorista di Giorgio Napolitano. Tanto che il suo ex direttore Antonio Polito, che considera il socialismo morto e sepolto ed è un sostenitore del Partito Democratico, non perde occasione di prendere per i fondelli i suoi successori ed il giornale da lui fondato. In teoria Polito dovrebbe scrivere le sue osservazioni su giornali favorevoli al Pd. Su “Europa”, organo della Margherita. O su “L’Unità”, organo dei Ds. Ma il primo è diretto da Stefano Menichini, che proviene dal “Manifesto” e non vuole avere tra le palle gli snob napoletani che si vestono da inglesi e si sono fatti le ossa a “La Repubblica”. Il secondo da Antonio Padellaro, che non viene dalla sezioni del Pci ma dalla redazione romana del Corriere della Sera. E come tale non sopporta neppure l’odore di chi è stato a scuola da Eugenio Scalfari. Così Polito scrive su “Il Foglio”, giornale dei marxisti-leninisti di destra. Saranno matti, o no? Per togliere i dubbi passiamo a Sanremo. Il vincitore del Festival Simone Cristicchi ha vinto l’ultima edizione con una canzone dedicata ai manicomi ed ai suoi internati dimenticati. Neanche fosse Mario Tobino. Naturalmente si è subito dichiarato di sinistra. E come tale è stato benedetto e osannato. Peccato che negli anni ‘60 c’è stato Franco Basaglia. Che i manicomi siano chiusi da tempo ormai immemorabile. E che tutti i matti non siano più reclusi ma per strada. A chi la da la rosa, allora, il buon Cristicchi? Alla sinistra, alla sinistra!

Invito a laici e liberali

Leggi il documento che dovrebbe costituire la piattaforma culturale del futuro Partito Democratico e scopri che come tratto distintivo della nuova formazione politica viene scelto quello liberale. Segui il convegno che si è tenuto nei giorni scorsi a Bertinoro e che avrebbe dovuto costituire un momento d’incontro dell’area laica e riformista e registri che l’obiettivo su cui tutti pare abbiamo concordato, è dare vita ad un movimento liberale e socialista. Questa incredibile fortuna che i valori liberali vanno ottenendo all’interno della sinistra italiana dovrebbe suscitare grande soddisfazione. Almeno in quelli che hanno da sempre sostenuto la validità delle idee di libertà rispetto ai cascami delle ideologie stataliste e totalitarie del secolo passato. Invece, al posto della soddisfazione c’è l’allarme e la preoccupazione. Perché non c’è bisogno di pensare male, come Andreotti e prima di lui il cardinal Bellarmino, per sapere che il Partito Democratico non avrà alcun tratto liberale visto che è destinato a tradursi in un mini-compromesso storico tra i due gruppi dirigenti eredi delle fallimentari politiche di Moro e Berlinguer degli anni ‘70.
E non è neppure necessario essere particolarmente malizioso per intuire che il convegno di Bertinoro è servito a gettare le basi per il disperato tentativo di ricomporre, con gli ultimi spezzoni rimasti, una qualche vestigia dell’ex Psi in vista delle elezioni europee del 2009. Non è che non ci sia dignità politica in queste due iniziative. Gli stati maggiori di Ds e Margherita avvertono che il terreno frana sotto i loro piedi. E pensano legittimamente che l’unico modo di consolidare la propria permanenza alla guida della sinistra italiana sia quello di mettere insieme i cattolici ed i comunisti di una volta in un partito unico. Lo fanno con lo sguardo rivolto al passato. Nella illusione che il modello dossettian-berlingueriano possa sopravvivere nel terzo millennio. Ma lo fanno anche con grande attenzione alle esigenze della comunicazione. E poiché non possono presentarsi come dei cadaveri politici che tentano di risorgere, s’imbellettano con quella immagine liberale che è ormai innovativa e positiva agli occhi dell’intera opinione pubblica del Paese.
Lo stesso vale per quelli di Bertinoro. Che tentano il salvataggio di una composita nomenklatura formata dagli spezzoni rimasti dello Sdi e del Psi e dai fuoriusciti dei Ds di tradizione “migliorista”. E lo fanno, sempre tenendo conto che se rispolverassero la vecchia unità socialista non sarebbero più credibili, ammantandosi di valori laici e liberali che cancellano il sapore di rancido della minestra riscaldata. Ma i laici ed i liberali, quelli veri e non quelli inventati per l’occasione, che c’entrano in queste vicende? Nulla. Ma non basta pensarlo. E neppure dirlo. E’ necessario dimostrarlo politicamente. Ed è per questo che è necessario avviare su questo argomento un dibattito serio ed approfondito sul futuro dei liberali e dei laici. Foglie di fico dei progetti altrui o soggetti politici autonomi, sia pure all’interno dei contenitori imposti dal bipolarismo?

Il matto di Sanremo

Ci vuole una bella protervia a scegliere il ristorante più frequentato di Sanremo. Mettersi a tavola vicino a quella di un giornalista de “La Stampa”. Ed iniziare una conversazione a voce forte e spiegata sulla necessità il prossimo anno di mandare in pensione l’anziano conduttore del Festival e di sostituirlo con qualcuno meno stagionato e più capace di catturare il pubblico giovane. Casualità? Tutto può essere. Ma hai presente di chi stiamo parlando ? Professionisti, mica dilettanti. Gente che ne sa una più del diavolo. E che non lascia nulla al caso. Figuriamoci in quel covo di serpenti a sonagli che è viale Mazzini! Dunque, del Noce e Paglia hanno deliberatamente provocato. E Pippo Baudo ha imboccato con tutte le scarpe. Già quando sente parlare di Bonolis ha un doppio travaso di bile e mette mano alla pistola. Figuriamoci quando, oltre che di Bonolis, ha sentito parlare di Fiorello, Insinna, Conti e della Carlucci. Non ci ha visto più. E se l’è presa in ordine con Romano Prodi, con il ministro Gentiloni, con Mediaset, con il solito Del Noce, con l’intera classe politica. E per fortuna che alla fine sono finiti i collegamenti perché, altrimenti, sarebbe sicuramente tornato a bacchettare Benedetto XVI, colpevole, ai suoi occhi, di non fare il Papa come dice lui. Ora si discute sul perché della provocazione dei due volponi. Lo hanno voluto fare uscire di senno per dimostrare che ha fatto il suo tempo e che è ora di sostituirlo? Oppure lo hanno mandato ai matti per indurlo a risolvere con le proprie mani il problema della sua ingombrante e costosa presenza a Sanremo? Sulla faccenda si discuterà a lungo. D’altro canto al Festival dove vince Simone Cristicchi con una canzone che promette rose ai matti, un folle riconosciuto ci doveva pur essere. Nulla è per caso. Anche da Sanremo a Santa Maria della Pietà.

Il rischio della trattativa tutti contro tutti

C’è solo un aspetto appassionante nella discussione che si è accesa sulla riforma elettorale. Quello che mette in evidenza solare come la legislatura appena nata sia già virtualmente morta. Se tanto si discute di come andare a votare a più di quattro anni dalla data naturale, vuol dire che la crisi continua ad essere praticamente aperta. E che tutti i partiti sono ormai convinti che per il ricorso anticipato alle urne, sia ormai solo questione di tempo. Forse quest’anno. Più probabilmente il prossimo. Ma è proprio la consapevolezza che la legislatura sia agonizzante a rendere il dibattito sulla riforma elettorale più teso e più difficile. Di fronte allo scenario che prevede un nuovo e ravvicinato giudizio popolare, ogni singola forza politica allenta i vincoli di schieramento che la tengono legata agli alleati e cerca di badare soprattutto al proprio interesse particolare. E’ normale, allora, che nel centro destra Forza Italia difenda l’attuale sistema elettorale che le garantisce di rimanere l’asse portante di un fronte unitario anti-sinistra. Che l’Udc persegua il progetto di diventare l’ago della bilancia della scena politica nazionale proponendo un sistema tedesco che annulli il bipolarismo e crei le condizioni per un ritorno al centrismo Dc.
Che la Lega giochi più parti in commedia usando l’adesione a questo o a quel modello elettorale in chiave di accordo tattico con questo o quel partito in funzione della propria sopravvivenza. Che Alleanza Nazionale oscilli tra Berlusconi e Casini nella ricerca della posizione più conveniente per la propria strategia politica. E che tutte le altre forze minori si muovano in libertà (il nuovo Psi con lo Sdi, il Pri con il Pli) all’insegna del primum sopravvivere. In questa luce è altrettanto normale che alle divisioni dell’opposizione corrispondano quelle della maggioranza. La sensazione che il tracollo sia imminente, accentua anche nel centro sinistra il sacro egoismo di partito. E le conseguenze si vedono quotidianamente sulla tormentata navigazione del governo. L’esistenza di un fenomeno comune spinge il centro sinistra ad utilizzare le divisioni del centro destra per nascondere le proprie. E viceversa. Ma va detto con grande chiarezza che il mal comune in questo caso non fa il mezzo gaudio.
Mentre le divisioni della maggioranza sono fisiologiche (non a caso c’è la sensazione generale che la legislatura sia già agli sgoccioli), quelle dell’opposizione sono decisamente più gravi. Perché impediscono che il fiume carsico della crisi arrivi finalmente allo scoperto e produca una salutare chiarificazione. E, soprattutto, perché finiscono addirittura con il compromettere il vantaggio che il fronte dell’anti-sinistra è riuscito a conseguire in questi primi mesi di legislatura. Prima di trattare separatamente con Prodi o con D’Alema, allora, è bene che Berlusconi, Fini, Casini e Bossi trattino e si accordino tra di loro. Solo in questo modo si esce realmente dalla crisi. Invece, se parte la trattativa del tutti con tutti, c’è anche il rischio di arrivare, a dispetto di ogni sensazione e previsione, al 2011.

L’incubo di D’Alema

“Me ne vado, me ne vado, me ne vado : non ci rimango qui a farmi cucinare dal prevosto di Palazzo Chigi, dal subcomandante di Montecitorio e da quella banda di sfessati che dopo aver vinto il terno a lotto del governo lo stanno sprecando tra marce e cazzate varie. Me ne vado in giro per il mondo e sto lontano dall’Italia”. Che ti viene in testa dopo aver ascoltato questo sfogo di Massimo D’Alema? Che il ministro degli Esteri si è scocciato di avere a che fare con pizza e fichi, che vuole volare alto, che da adesso in poi lascerà il de minimis nazionale a quello “spompato” di Fassino e che sfrutterà la sua carica di responsabile della Farnesina per trattare solo con stranieri del suo livello: Condy, Blair, Zapatero, Ségolène, Chàvez, Ahmadinejad e, se proprio non se ne può fare a meno, Olmert e Siniora. Gli puoi dare torto? Niente affatto. Ha ragione da vendere. E riconosci che D’Alema è il classico monocolo nella terra dei ciechi di sinistra. Che i Ds non lo meritano e neppure il Partito Democratico. Che magari ne avessimo uno così pure noi. E che per questa sua fregola di andarsene sdegnato all’estero può essere tranquillamente considerato come l’ultima espressione della nobile tradizione che inizia con Scipione e con il suo “ingrata patria, non avrai le mie ossa”. A quel punto leggi le agenzie. E rimani perplesso. Perché il presidente del Pse Poul Rasmussen, evidentemente a causa di certi cavoletti di Bruxelles ingurgitati di sera inseme a qualche robusta salsiccia alsaziana, ha avuto un incubo notturno. E tra mille tormenti ha sognato che non avrebbe più incontrato D’Alema nei vertici europei. Insomma, un incubo frutto sicuro di sindrome d’abbandono con possibile complicazione da attrazione omosessuale. Di qui l’appello: “Massimo ripensaci, restatene a casa. Fuori volano bassi. Tu pensi di pizzicare il culo a Condy e ti ritrovi con Rasmussen alle spalle”!

Friday, March 02, 2007

Le difficoltà di maggioranza e opposizione

Sono passati appena dieci mesi da quando si è votato per le elezioni politiche. Ma già si respira aria di fine legislatura. Il governo ha riottenuto per il rotto della cuffia la fiducia al Senato. E l’unico compito che gli stessi esponenti di centro sinistra si sentono di potergli dare è quello di preparare una nuova legge elettorale e portare il Paese al voto. Al di là di qualsiasi valutazione di parte questo è il segno inequivocabile di un fallimento. Gigantesco e clamoroso. E’ fallita la maggioranza che ha vinto con appena ventimila voti di scarto le elezioni. E’ fallita la formula su cui tale maggioranza era stata formata, cioè il sinistra-centro. Ed è fallito l’uomo che questa maggioranza aveva scelto per portare avanti il suo programma e che ha trasformato l’asse privilegiato con la sinistra estrema nel tratto distintivo del proprio governo. Naturalmente Romano Prodi, forte della difficile fiducia di Palazzo Madama e della più semplice fiducia di Montecitorio, ostenta sicurezza.
Ma, forse più di ogni altro, è perfettamente consapevole che d’ora in avanti è un presidente del Consiglio dimezzato. Forse potrà ancora manovrare da Palazzo Chigi per continuare a favorire i poteri forti che lo sostengono, Fiat e Banca Intesa. Ma di avviare una qualsiasi minima riforma non se ne parla nemmeno. Ed anche la possibilità di continuare ad utilizzare il governo come succursale del vecchio Iri non sembra affatto scontata. Il malumore aperto dei Ds per l’eccessiva disinvoltura con cui il presidente del Consiglio pretende di irizzare a proprio vantaggio pezzi della finanza e dell’economia nazionali, costituisce un illuminante semaforo rosso lungo questa strada.
Alla difficoltà di Prodi corrisponde però una difficoltà, sicuramente minore ma altrettanto certa, dell’opposizione. Se il centro destra avesse avuto una concreta ed unitaria proposta di sbocco della crisi, l’esito della vicenda del governo rinviato alle Camere sarebbe stato sicuramente diverso. Può essere che questa difficoltà dipenda dalle differenti posizioni tra i singoli partiti del centro destra sulla riforma elettorale. Ma è fin troppo evidente che fino a quando Forza Italia, Alleanza Nazionale, Udc e Lega continueranno a marciare divisi senza essere in grado di colpire uniti, il governo dimezzato di Prodi non potrà che continuare a sopravvivere. Prima di affrontare con il centro sinistra il tema del nuovo sistema elettorale, quindi, le forze dell’opposizione dovrebbero trovare una posizione comune sulla faccenda. E’ l’unico modo per accelerare i tempi ed arrivare al chiarimento politico generale che il Paese attende come la manna!

A ciascuno la sua spiegazione

C’è una spiegazione a tutto. Come quella che riguarda il senatore Pallaro, anzidetto “cazzaro”, per via che un giorno annuncia il voto per Prodi, il giorno appresso contro, il terzo si astiene, il quarto scompare ed alla fine della fiera torna e dice “sì” al “professore” ma con l’impegno che alla prossima scadenza dirà “no” per realizzare le larghe intese. Ora la spiegazione che viene data per il comportamento di Pallaro-cazzaro è che il vegliardo zuzzurellone italo-argentino abbia subito tali e tante sollecitazioni a Buenos Aires da costringerlo a rinunciare ai suoi iniziali propositi di imitare il modello Andreotti per favorire la nascita di un governo a più alto tasso post-democristiano. Pare che Palla-Cazza (si abolisce il “ro” per risparmiare) incassi dalle sue aziende argentine 25 milioni di dollari al mese. Pare che il Presidente Nestor Kircher sia un patito di Prodi e tenga per le palle il nostro uomo custodendo in un cassetto i dossier relativi agli antichi rapporti di quest’ultimo con il regime di Videla. Pare, infine, che qualcuno abbia spiegato al “cazzaro” (la semplificazione accentua il risparmio) che se non vuole che i dossier escano fuori e che i 25 milioni di dollari al mese continuino ad entrare dentro, deve tenere in piedi il centro sinistra italiano amico di Chavez e di Castro. Pallaro dice che questa storia è tutta una palla. Ma è un fatto che dopo il voto del Senato le spiegazioni si sprecano. Come quella che riguarda Marco Follini. Ricordate la storia che la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto? Bene. Quella di Follini, come dicono i magistrati, pare di no.

Quando l'eutanasia è un obbligo

Rilancio? Pit stop? Ripartenza ? Niente di tutto questo. La fiducia sul filo di lana del Senato al governo di Romano Prodi serve solo a congelare la crisi. Nessuno sa bene quando avverrà lo scongelamento. Se tra qualche settimana o qualche mese. Ma tutti sanno che presto o tardi la crisi verrà comunque scongelata. Ed a quel punto l'unica soluzione possibile, visto che quella fondata sull'autosufficienza si è già abbondantemente consumata in questi giorni, sarà quella di un governo d'emergenza destinato a preparare la nuova legge elettorale ed a portare il Paese alle elezioni anticipate.
Nel tentativo di conservare il più a lungo possibile il congelamento della crisi il presidente del Consiglio si è candidato ad essere lui l'artefice della riforma elettorale. Visto che tanto l'attuale governo non è in grado di andare oltre l'ordinaria amministrazione (altro che 12 punti!), Prodi ha cercato di attribuirsi le funzioni del futuro governo d'emergenza e di occuparsi di quella modifica del sistema elettorale che costituisce ormai la principale preoccupazione politica dei partiti e delle istituzioni repubblicane.
La mossa è abile. Ma è ben difficile che al “professore” verrà concessa la possibilità di fare al tempo stesso il Presidente di un esecutivo congelato e d'emergenza. A sbarrargli la strada, oltre l'opposizione, sono soprattutto i suoi alleati. Il dibattito del Senato lo ha dimostrato in maniera lampante. Il gelo dei Ds e Margherita indica che i due partiti hanno iniziato l'operazione di scaricamento del testardo sostenitore della formula di sinistra-centro. E che non hanno alcuna intenzione di mettere il proprio destino nelle sue mani lasciandogli la possibilità di pilotare la riforma elettorale.
In queste condizioni il vero problema del momento è la durata della sopravvivenza di un governo così delegittimato ed azzoppato. Ogni giorno trascorso con un esecutivo in stato comatoso è un giorno perso sulla strada del risanamento e del rilancio dell'economia del Paese. Tirare a lungo con il paziente in stato comatoso, dunque, non è un atto pietoso ma di semplice irresponsabilità. Giulio Andreotti, che è uomo di grande esperienza, dice sempre che è meglio tirare a campare che tirare le cuoia. Ma anche lui incomincia a convincersi che nelle condizioni attuali per il governo della crisi congelata è meglio tirare le cuoia che tirare a campare. E se anche il cattolicissimo Divo Giulio si convince che in questo caso l'eutanasia è un obbligo, vuol dire che non c'è proprio più nulla da fare.

Appello in favore di Follini

Lasciate perdere Marco Follini. Non insultate Marco Follini. Risparmiate Marco Follini. Non isolate Marco Follini. E' vero, l'ex segretario dell'Udc ha votato in favore di Romano Prodi a dispetto di quanto aveva predicato per anni ed anni. E' vero che lo ha fatto più per fare uno sgarbo a Silvio Berlusconi che per reale adesione ai 12 punti di strizzatura delle vecchie 280 pagine del programma prodiano. Anzi, è ancora più vero che gli è venuta la bella pensata soprattutto per fare uno sgarro a Pierferdinando Casini. Sempre in piena contraddizione con la sua lunga e petulante campagna in favore del neo-centrismo: “Caro Pier, ti credevi che con la crisi era arrivato il momento di realizzare senza di me le larghe intese ! Tiè ! Io faccio la stampella e tu te la prendi in quel posto !”. Insomma, diciamocela tutta. Ci sono mille e più una ragione per prendersela con Follini. Ma ce n'è una, ed una sola, per tenerselo caro. Ed a questa bisogna aggrapparsi per lanciare un appello a lasciarlo indenne ed a non riempirlo di improperi. Anzi, a trasformarlo in un esempio, un modello, un prototipo. Negativo quanto si vuole ma da non criminalizzare in alcun caso. Per non trasformarlo in vittima e nasconderne il valore negativo. Questa ragione è che Follini “se n'è ghiuto e soli ci ha lasciato” come diceva Togliatti. Ma lo ha fatto da solo. Avrebbe dovuto essere il granello che smuove la valanga. Ed invece manco un cane gli si è messo appresso. La sua solitudine, totale ed assoluta, è fin troppo significativa. Seppellirla sotto metri d'improperi sarebbe da stupidi. Se poi non si può proprio fare a meno di prenderlo a male parole, si può sempre ricorrere alla citazione storica rivisitata : “Vile, tu sostieni un governo morto!”.

Un voto per Prodi e per i talebani

Romano Prodi punta sull'effetto-San Remo. Sempre che Pippo Baudo faccia il miracolo, da oggi in Italia si canta e non si pensa ad altro. Per cui la fiducia del Senato di oggi è più che scontata. Si può riaprire una crisi nel bel mezzo del Festival della Canzone? Figuriamoci. Per cui, in nome non degli interessi generali del Paese ma solo della necessità di dare un minimo di continuità al governo malmesso di centro sinistra, votano Andreotti, Pininfarina, i dissidenti dell'ultra sinistra, gli altri senatori a vita allineati, Pallaro e l'ultimo arrivato Follini. E la festa è fatta. Tra fiori, canti e la convinzione consolatoria, suggerita dal portavoce Sircana, che si è trattato di un semplice pit stop e che, fatto il pieno di benzina e sistemato il carburatore, d'ora in avanti si corre più veloce di prima.
Ma dove? Già, dove s'indirizza un governo che viene votato al Senato non per convinzione politica ma per pura carità di patria ? La risposta è fin troppo semplice. Non c'è un traguardo per il governo Prodi. L'unico è il muro di una nuova crisi a breve. E questo muro, nelle sue diverse versioni, è già alle viste. Forse non sarà quello rappresentato dalla riforma delle pensioni. Che il ministro dell'Economia Tommaso Padoa Schioppa insiste nel promettere alla Ue e che i sindacati hanno già bocciato senza se e senza ma. Si tratta (perché sul terreno delle pensioni un futuro compromesso è forse possibile) del muro dell'Afghanistan. Il fallito attentato al vicepresidente Usa Cheney cancella ogni illusione nutrita dal ministro della Difesa Arturo Parisi secondo cui non ci sono offensive talebane in vista, e non c'è dunque il rischio che il nostro contingente si possa trovare di colpo in prima linea.
Anche se non è andato a buon segno, il colpo di mano dei fondamentalisti afghani dimostra che l'offensiva talebana è cominciata. E che d'ora in avanti alle tante chiacchiere sulla ipotetica conferenza di pace o sulla improbabile trasformazione della missione militare in missione di pace, subentra la dura realtà della guerra. Il governo, che come dice Sircana ha già subito un pit stop sulla politica estera, rischia di infrangersi proprio contro questa realtà. Se al momento del voto al Senato sul rifinanziamento della missione in Afghanistan il governo perde di nuovo la propria autosufficienza, la sua corsa finisce. E questa volta definitivamente. Chi vota oggi in nome della continuità farebbe bene a valutare la possibilità che la propria carità di patria serve solo a prolungare l'agonia.
Ma farebbe ancora meglio a tenere conto che nel sostenere un governo così incerto e diviso sulla missione a Kabul si assume anche la responsabilità di quanto potrà succedere, da oggi in poi, ai nostri soldati impegnati in Afghanistan. I talebani conoscono alla perfezione le vicende politiche italiane. Sanno delle divisioni che lacerano governo a maggioranza. E, nel tentativo di spingere gli italiani ad un ritiro che costituirebbe per loro un risultato politico di straordinario interesse, potrebbero attaccare il nostro contingente con la stretta violenza e spregiudicatezza con cui hanno tentato di fare fuori Cheney. Chi vota oggi per Prodi offre il fianco ai talebani. La speranza è che non ne approfittino.

Il miracolo di Sua Baudità

Ma ti pare che uno che richiama all'ordine Benedetto XVI spiegandogli come si fa il Papa , si accontenta poi di essere considerato come un semplice senatore a vita? Quanto meno si paragona a Gino Bartali , il mitico vincitore del Tour di Francia del '49, quello che per Paolo Conte fece rigirare la palle ai francesi e secondo la vulgata storica salvò l'Italia dalla guerra civile dopo l'attentato di Pallante e Palmiro Togliatti! Insomma, Pippo Baudo non li guarda proprio i vari Scalfaro, Andreotti, Pininfarina, Rita Levi Montalcini, Ciampi e, figuriamoci, Colombo. Superpippo sa benissimo che Sanremo salva il governo. Nel senso che da ieri sera gli italiani stanno incollati al televisore a vedere gli sgambettamenti della Hunziker e la parata di vecchie glorie e giovani speranze che caratterizza il festival della canzone. Se ne infischiano del voto di Palazzo Madama. Vada come vada, noi andiamo dove ci porta il cuor, il mar, l'amor e tutte le rime baciate, i ritmi sincopati e le mille minchiate dalla rassegna canora. Che ce frega der Senato, noi c'avemo Pippostar! E' fin troppo noto il costo della certezza del venerando prestentatore di essere un salvatore della patria prodiana più decisivo di un qualsiasi padre coscritto o dello stesso Follini (che oltre tutto non ha neppure il fisico). Si tratta del provvedimento d'urgenza con cui il governo ha rinunciato al tetto alle retribuzioni per i consulenti delle strutture pubbliche proprio per consentire alla Hunziker ed al Supremo (così è stato ribattezzato dopo le bacchettate al Papa) di infiocchettare lo spettacolo dell'Ariston. Si parla, in sostanza, di circa una milionata di euro, centesimo in più, centesimo in meno. Ma, almeno per quanto riguarda il Presidente del Consiglio, si tratta di soldi ben spesi. Sia perché non sono suoi. Sia perché servono alla causa. Grazie a Sua Baudità “non prevalebunt”.

La crisi della formula prodiana

Votano i dissidenti, vota Giulio Andreotti folgorato dalla rinuncia ai Dico, vota Oscar Luigi Scalfaro appena risanato. E con ogni probabilità vota anche Rita Levi Montalcini, che si trova in Estremo Oriente e dovrebbe andare negli Stati Uniti ma per l'occasione è disposta a fare il giro più lungo, tornare indietro e fare tappa a Roma. Per non far mancare a Romano Prodi il suo sostegno al momento della fiducia al governo. Non c'è bisogno di calcolare Marco Follini per pronosticare che il governo riuscirà a spuntarla al Senato. Ma lo scontato risultato positivo in termini numerici, non modificherà di una virgola il disastro politico conseguito dall'esecutivo di Romano Prodi. Dalle elezioni ad oggi sono passati appena nove mesi. Ed in questo brevissimo periodo la coalizione di centro sinistra uscita vincitrice per un soffio dalla campagna elettorale, è riuscita nell'impresa miracolistica di perdere più di dieci punti nei sondaggi del consenso del Paese.
Molti minimizzano tale fenomeno sostenendo che per le prossime elezioni c'è tempo. Ed anche in caso di interruzione anticipata della legislatura, Romano Prodi ed i suoi alleati hanno la possibilità di compiere una adeguata azione di recupero. Ma questa tesi non tiene conto della eccezionalità del crollo di consenso subito dal governo nell'arco di nove mesi. E' la prima volta da quando esiste il sistema bipolare ed il maggioritario che la coalizione uscita vincitrice dalle elezioni perde tanta fiducia da parte del proprio elettorato in così poco tempo. Si tratta di un autentico record negativo. E come tale è destinato a non essere dimenticato.
E' possibile (ma non proprio probabile) che nei prossimi mesi la coalizione di governo risalga di qualche punto nei grafici dei sondaggi. Ma quanto è avvenuto non si cancella. E rimane come una ferita aperta le cui conseguenze condizioneranno fatalmente e non poco i risultati delle future elezioni. Il perché di questo disastro dagli effetti anche lontani è tutto nella formula che il presidente del Consiglio ha voluto dare alla propria coalizione. Memore dell'esperienza della legislatura del '96, quando gli venne meno il sostegno della sinistra radicale ed antagonista, Prodi ha realizzato un asse di ferro con quella stessa sinistra nella convinzione che solo in questo modo avrebbe potuto evitare la ripetizione della storia. Il risultato è che i partiti di lotta hanno assunto un ruolo innaturale e determinante nell'azione del governo. E che, grazie alla insoddisfazione ed irritazione della maggioranza degli italiani, la formula degli equilibri più avanzati è entrata inguaribilmente in crisi. Il probabile voto di fiducia dei prossimi giorni non cambia questa realtà. E da qui alla fine anticipata della legislatura il dibattito politico ruoterà attorno ad un unico dilemma. Quando sarà scaricata la sinistra antagonista ?

I compagnucci della parrocchietta

Marco Follini è un fetente o un precursore ? Ognuno risponde sulla base della propria collocazione. Per quelli del centro destra l'ex segretario dell'Udc è un venduto. Per quelli del centro sinistra è un benemerito della governabilità del Paese. Per quelli che non stanno né da una parte, né dall'altra e costituiscono la cosiddetta ampia e generalizzata zona grigia, Follini è un signor nessuno che non canta, non balla, non recita, non litiga in tv. E se proprio s'insiste può al massimo ricordare quei chierichetti dei vecchi oratori, quelli secchi, occhialuti e perfettini, che fanno la spia al prete sui compagni che si fanno le seghe. Ora gli schierati che pensano con la pancia avranno pure ragione. Ma l'idea della zona grigia pare quella più giusta. Follini è un perfetto chierichetto d'altri tempi. Ricordate il primo Alberto Sordi che faceva “Mario Pio, pronto chi parla con chi parl'io"? Altro che Henry Potter ! Follini è il Mario Pio della Terra di Mezzo. Che non si limita a fare la spia al reverendo dell'oratorio di Palazzo Chigi sui compagni segaioli ma cerca pure di fregarli quando si tratta di arrivare per primo nelle gare a chi porta l'incenso o il vino al parroco. Guarda che ha fatto al compagnuccio della parrocchietta Pierferdinando Casini! Prima gli ha fatto credere che lavorava per il superamento del centro sinistra e per le grandi intese. Poi, quando la caduta del governo avrebbe favorito l'uno e l'altro, ha fottuto il compagnuccio dimenticandosi del disegno centrista e blindando l'autosufficienza della coalizione. Insomma, uno scherzo da prete. O se vogliamo, da democristiano.Chissà che ne pensa la senatrice Franca Rame, che sogna la rivoluzione ed intanto si prepara a votare con Mario Pio. Mistero buffo!

Napolitano e le soluzioni precarie

E’ un compito decisamente improbo quello che aspetta il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Sulla carta la soluzione della crisi può apparire semplice, quasi banale . Un Prodi-bis identico in tutto e per tutto a quello caduto al Senato riuscirebbe probabilmente ad ottenere la fiducia con il solito voto determinante a Palazzo Madama dei senatori a vita. Per cui nessuno può escludere che il Capo dello Stato possa essere indotto a scegliere la strada meno complicata . Nella convinzione che intanto si risolve il problema contingente e poi si vedrà.
Ma il condizionale in questa circostanza è d'obbligo. Perché Napolitano non sembra disposto ad interpretare il proprio ruolo come quello di un qualsiasi Ponzio Pilato che si lava le mani dei guai politici che gravano sul paese . Ed, al contrario, pare ben deciso , sempre nel rispetto delle prerogative costituzionali, a caricare di una funzione attiva il Quirinale nella ricerca non di una trovata precaria ma di una soluzione concreta e duratura al problema della stabilità del governo .
In questa luce lo sbocco apparentemente più facile della crisi diventa quello più complicato. Perché è fin troppo evidente che un nuovo governo Prodi sorretto dalla stessa maggioranza che si è autoaffondata al Senato avrebbe la forza di vivacchiare per qualche settimana, al massimo qualche mese. E poi cadere di fronte al primo ostacolo di una qualche entità. Come , ad esempio, quello della legge sulle coppie di fatto.
Se i partiti del centro sinistra insistessero allo spasimo su Napolitano nel proporre questa versione del Prodi-bis, il Capo dello Stato non potrebbe non accontentarli. Al momento non esiste alcuna maggioranza alternativa allo schieramento che per un soffio ha vinto le ultime elezioni. Ma , a parte la considerazione che una parte del centro sinistra si rende conto della assoluta improponibilità di una soluzione del genere, Napolitano rischierebbe di venire considerato corresponsabile del pastrocchio. Ed è facile presumere che alla sua prima gestione di una crisi di governo, il Presidente della Repubblica non abbia alcuna intenzione di perdere la faccia e la reputazione per togliere le castagne dal fuoco a Prodi ed ai suoi maldestri alleati. Più facile, allora, immaginare che anche Napolitano punti a favorire un allargamento dell'attuale maggioranza . Ma come ? Con chi? Ed a quali condizioni?
Le difficoltà della crisi sono condensate in questi tre interrogativi . Perché allargare la maggioranza a qualche singolo transfuga del centro destra non sembra impresa facile senza operare una qualche modifica del programma originario del centro sinistra. Nessuno passa dall'altra parte senza incassare un prezzo politico adeguato. E non è un caso che Clemente Mastella, nell'idea di imbarcare Marco Follini , abbia già chiesto all'Unione di rinunciare alla legge sui D.i.c.o. . Così come non è da escludere che qualche altro esponente del centro sinistra possa arrivare a promettere la costruzione del Ponte sullo Stretto pur di catturare Raffaele Lombardo e la sua piccola pattuglia di autonomisti siciliani.
Ma un centro sinistra allargato a Follini ed a Lombardo sarebbe sufficienti garanzie di stabilità ? Quale sarebbe la reazione dei laicisti di sinistra alla rinuncia ai patto di convivenza per accontentare Follini . E quale quella dei Verdi all'idea di affrettare la costruzione del ponte per acquistare il consenso di un paio di senatorio aggiuntivi ? Anche l'ipotesi dell'allargamento ai singoli, dunque , appare aleatoria , un pastrocchio addirittura peggiore di quello del Prodi-bis senza modifiche di sorta. E può Napolitano mettere a cuor leggero la firma sotto una aberrazione di questo tipo?
Certo, l'alternativa, al Prodi-bis ed al Prodi-bis allargato è piazzare la barra della crisi verso il mare aperto , per scaricare Prodi e cercare soluzioni legate a nomi diversi ed a formule più innovative. Dal governo istituzionale a quello di larghe intese, da quello di decantazione a quello di emergenza. Questa sarebbe la strada maestra. Anche per il Quirinale.

L’Oscar della sfiga

A chi spetta l'Oscar della Sfiga? Il dibattito è aperto e scoppiettante. C'è chi dice che la statuetta spetti di diritto a Romano Prodi, che ancora una volta è scivolato sugli errori di pallottoliere dei suoi collaboratori. E, soprattutto, su quell'ira di Dio di Massimo D'Alema, che quando si muove sfascia tutto: in particolare i governi del “professore”. Altri, invece, sostengono che il più sfigato di tutti sia proprio il Presidente dei Ds. Da adesso in poi può fare il mejo fico der bigoncio quanto vuole. Ma dare lezioni di politica estera a Blair e fare la mano morta con Condy se lo sogna. Se dovesse nascere un Prodi-bis potrebbe forse fare il ministro dello Sport e dello Spettacolo, per via del fatto che è romanista e recitare la parte dello sprezzante gli riesce alla grande. Ma di ritorno alla Farnesina non se ne parla proprio. Al massimo può arrivare a Ponte Milvio. E li si ferma. Sfigati con la nomination per l'Oscar, però, non sono solo Prodi e D'Alema. Pensa a quei due scazzafrulli di Rossi e Turigliatto, colpiti dalla fatwa di Bertinotti e Fassino e d'ora in avanti costretti a chiudersi in qualche centro sociale per sfuggire alla vendetta della sinistra ministeriale. Pensa a Franca Rame, che ha scoperto come i suoi travagli di coscienza, che l'hanno spinta a votare per il governo, fossero del tutto inutili. Tanto valeva continuare a dare del coglione a Parisi. Pensa a Gentiloni che voleva azzoppare Mediaset ed ha dovuto assistere all'impennata in Borsa del titolo del gruppo del Cavaliere. Pensa a Giovanni Bazoli, Angelo Rovati e quant'altri, che adesso debbono frenare il loro progetto di irizzazione prodiana del paese e prendersela per il momento in saccoccia. Insomma tanti avrebbero titolo a conquistare la statuetta. Se non fosse che a Saxa Rubra, dove c'è chi se ne intende, l'Oscar è stato già assegnato a Giovanni Minoli. Perchè, dai tempi di Craxi in poi, ogni volta che sta sul punto di essere nominato direttore di una rete Rai gli cade addosso il “governo amico”.

Thursday, February 22, 2007

Il giurin-giurello del “lider Massimo”

E adesso non facciamo che ci si tira indietro. Che si dice “ma noi avevamo scherzato”. Che era un anticipo sul primo di aprile e che era la fine di carnevale. Vi è piaciuta la marcia di Vicenza? Con Fausto Bertinotti un poco afflitto per non esserci andato, Oliviero Diliberto orgoglioso di sfilare con il pugno chiuso, Marco Rizzo sprizzante falce e martello da tutti i pori, i cattocomunisti veneti sfilanti e compunti e misurati come se dovessero andare a mettere la mano sulla tomba del Santo (in Veneto il Santo per antonomasia è Sant’Antonio, immigrato portoghese ma naturalizzato patavino)? Vi è piaciuto Oreste Scalzone, con cappello da fuoriuscito e fisarmonica in spalla che cantava gli inni di ogni tipo di rivoluzione, anche quella copernicana? E poi, vi sono piaciuti i Casarini ed i Caruso, che invece del solito piccone portavano un cero a Santa Barbara, la protettrice degli artificieri, quelli che in futuro dovrebbero far saltare l’ecomostro rappresentato dalla base Usa della periferia vicentina? E ci avete preso gusto ai pipponi dei commentatori politicamente corretti della grande stampa fiancheggiatrice, quelli che avevano sentenziato che in fondo “che vuoi che sia per gli Stati Uniti una base in più o in meno”? Quelli che avevano spiegato come la storia della conferenza di pace aperta alla partecipazione di Iran, Pakistan, Iraq e, possibilmente, anche Bin Laden, avrebbe consentito alle truppe italiane a Kabul di rinunciare alla guerra, dedicarsi all’amore ed ingravidare tutte le afghane compiacenti presenti nei territori dove sventola il tricolor? Insomma, v’è piaciuto giocare sulla pelle della politica estera italiana? Adesso si paga pegno. “Giurin, giurello, caro D’Alema, l’avevi detto. E ora fallo!”.

Lo sbobinato dell’incontro Prodi-Bertone

Pare che sia andata così: “ Dica, dica ....”. Ha esordito il cardinale Tarcisio Bertone guardando dritto in faccia il Presidente del Consiglio Romano Prodi. “Dico...” Ha risposto il “professore” sibilando in bolognese come quando cerca di confondere il proprio interlocutore. “Come dice ?” Ha incalzato Bertone, che ha lo stesso nome del mitico terzino dell’Inter e della Nazionale Burgnich e sembra essere altrettanto roccioso. “Dico, direi, potrei dire...” Cosi tra detti, non detti e contraddetti è andato avanti il colloquio riservato in cui ognuno ha detto la sua senza dire nulla di più di quanto aveva già detto nelle ore precedenti. Poi i rispettivi uffici stampa hanno messo mano alle solite formule diplomatiche che si usano in questi casi. Ed è uscita fuori la storia dell’incontro franco ma cordiale, corretto ma sereno, positivo ma rispettoso delle reciproche posizioni. Insomma dell’incontro che, al di là del grande contorno fatto di massime autorità e perfetta etichetta, non è servito ad un bel niente. Per il “Corriere della Sera” si è trattato di un gran risultato. E c’è mancato poco che Paolo Mieli non titolasse “Habemus Pacs!”. D’altro caro bisogna capirlo. L’altro ieri il governo ha deciso di pagare per i prossimi sette anni lo stipendio di duemila lavoratori licenziati dalla Fiat, comproprietaria di Rcs. Figuriamoci se il quotidiano di via Solferino avrebbe mai osato scrivere che l’incontro è stato disastroso e Bertone, da buon Tarcisio, ha anche allungato un calcio sullo stinco al fine dicitore Prodi. Così la balla del Corriere non l’ha bevuta nessuno. Ed a tutto è apparso chiaro che tra il dico ed il non dico non si è concluso nulla. Tranne per quanto riguarda la conferma che da adesso in poi la Chiesa continuerà a dirne quattro al centro sinistra. Ma chi l’ha detto? Dicunt.

La competenza della Rame

Il preambolo è questo. “Studio aperto”, il telegiornale di Italia Uno diretto da Mario Giordano, manda in onda un tormentone con Franca Rame che, in compagnia del marito e di una coppia di amici, guarda la televisione ed al momento della apparizione sullo schermo del ministro della Difesa Arturo Parisi, commenta : “Eccolo qui il c..one. Ha la dentiera nuova”. Il giorno dopo il Corriere della Sera riporta la notizia e la intitola “Rame insulta Arturo: ha la dentiera nuova”. Dato il preambolo ora la vicenda ha preso due pieghe diverse. La prima riguarda la faccenda della dentiera del ministro della Difesa. Che per il giornale di Paolo Mieli è diventato un insulto. Magari bavoso e non sanguinoso, ma un insulto a tutti gli effetti. Nessuno ha capito bene perché mai sia insultante dire ad un tizio che ha la dentiera, nuova o vecchia che sia. Ma a via Solferino, dove per questioni di patto di sindacato tutti hanno denti sanissimi ed aguzzi, pare che dare dello sdentato a qualcuno sia una offesa e dirgli che ha i denti finti equivalga ad uno sputacchio in un occhio. Pensa Maurizio Costanzo quanti duelli avrebbe dovuto fare da quando si è rifatto l'apparecchio! La seconda piega tocca invece il “c..one”. Studio Aperto ha coperto la parola con il fatidico bip. Il Corriere della Sera l'ha lasciata indefinita. Piazzando però due acconci puntini. Che escludono l'eventualità che la Rame abbia voluto dare a Parisi del “caprone”, del “capoccione”, del “castrone”, del “cappellone” e via di seguito. E lasciando intendere che la senatrice di Rifondazione Comunista e componente attiva della maggioranza, abbia voluto appellare il ministro della Difesa del proprio governo con l'epiteto di “coglione”. La signora, moglie di Dario Fo, sì che se ne intende!

Friday, February 16, 2007

La ciofeca di Rutelli

Vittorio Sgarbi aveva ragione. Anzi, ragionissima. Il cassettone in cui Richard Meier ha rinchiuso l'Ara Pacis è un pasticcio, un obbrobrio e, per dirla alla Totò, una ciofeca. Non è che che la baracca razionalista di Morpurgo che ospitava l'altare della pace del Divo Augusto fosse meglio. Sempre una pataccata era. Solo un po' meno invasiva e pacchiana della costruzione del rinomato architetto, amato dalle giunte di sinistra romane, che a fianco del mausoleo dell'Imperatore ha messo in piedi su Longotevere una baracca in tutto simile ad un ospedale rumeno degli anni '50. Vittorio Sgarbi aveva ragione, anzi ragionissima, anche nel sostenere che la puttanata sarebbe costata un occhio della testa ai contribuenti. E la denuncia della Corte dei Conti, che ha avviato una serie di controlli sull'operato delle giunte Rutelli e Veltroni, ne è la conferma più evidente e clamorosa. Qualcuno dovrà pur spiegare come mai un' opera che in partenza doveva costare 7 milioni di euro, in arrivo ha superato la bella cifra dei 14 milioni. E' vero che al raddoppio delle spese per le opere pubbliche siamo abituati. Il caso degli stadi di Italia '90 insegna. Ma c'è un limite a tutto. E spendere 14 milioni per quattro mura e quattro vetri assemblati alla bene in meglio vuol dire superare abbondantemente questo limite. Ciò detto va però messo in chiaro che, definite le eventuali responsabilità amministrative o penali per il miracolo della moltiplicazione dei milioni di spesa, sulla “teca” di Meier indietro non si torna. A nessuno salti in testa di buttarla giù e di ricominciare tutto da capo. Con nuovi Meier, nuove polemiche, nuove spese. Limitiamo il danno. Rutelli c'è l'ha data, guai a chi la tocca. La ciofeca.

I diari e l’inglese bollito

E’ dalla fine degli anni ‘60 che che a “Il Messaggero” hanno il numero di telefono di un solo storico: Denis Mach Smith. Qualche revisionista scopre che Vittorio Emanuele II aveva le vene varicose? La redazione cultura telefona all’inglese per un acconcio parere. Si ipotizza che nel ‘36 l’Italia avrebbe usato la bomba atomica (se l’avesse avuta) nella guerra d’Abissinia? Riecco che la redazione cultura interpella il nostro uomo che assicura come il regime avrebbe usato anche i laser, il raggio della morte e le bombe puzzolenti pur di mettere in piedi un Impero di carta stupidamente concorrente con quello di ferro della Corona britannica. Così, succede che Marcello Dell’Utri scopre l’ultima serie dei diari del Duce. Scatta la solita telefonata all’ormai anziano specialista delle furibonde litigate ottocentesche tra Cavour e Garibaldi. Ne esce fuori una verità variabile: i diari di Mussolini scoperti da Dell’Utri sono sicuramente falsi. Che se non sono falsi sono stati falsificati dallo stesso Benito. E che se non sono falsi e non sono falsificati, sono sicuramente noiosi perché evidentemente scritti dal Capo del Fascismo con l’idea di vendersi sul mercato editoriale americano a guerra persa ed a Palazzo Venezia perduto. Ora, la verità variabile ha sicuramente un pregio. Può essere che una delle sue varianti ci indovini. E che i diari siano stati falsificati dallo stesso Duce, che siano noiosi. Ma c’era bisogno di telefonare al Matusalemme degli storici di parte per sapere che se l’acqua viene posta sopra il fuoco si riscalda? Ed era proprio necessario consultare il fiero difensore della sacralità dell’Impero britannico per avere come risposta la frescaccia di un Mussolini che dal ‘35 al ‘39 scrive diari fasulli nella previsione che nel giro di dieci anni perderà guerra e fortuna e dovrà bussare a quattrini agli editori Usa?E poi dice che Mario Appelius aveva torto. Dio stramaledica l’inglese. Se è bollito!

Wednesday, February 14, 2007

Prozac a D’Avanzo

A Giuseppe D’Avanzo sta sulle palle Niccolò Pollari. Non passa giorno che il giornalista de “La Repubblica” non trovi uno spunto qualsiasi per dare addosso all’ex capo del Sismi. Una volta è il caso Telecom, un’altra quello del segreto di stato su Abu Omar. E via di seguito. Con una continuità ed una determinazione tali da far seriamente pensare ad una vera e propria sindrome ossessiva da parte del baffuto pistarolo del giornale fondato da Eugenio Scalfari. Ora su questa sindrome è caduta come il cacio sui maccheroni la liberazione in Egitto dell’Imam che a Milano reclutava i fondamentalisti islamici da mandare a fare i terroristi in Iraq. E D’Avanzo ne ha subito approfittato per lanciare la sua solita litania contro Pollari sostenendo che, una volta libero, Abu Omar potrà tornare in Italia ed incastrare l’ex responsabile dei servizi segreti italiani. Confermando di essere stato rapito a Milano da Cia e Sismi messi insieme. E smentendo la diceria secondo cui il rapimento sarebbe stato falso, lui stesso un infiltrato della Cia nel mondo dei terroristi e l’invio sotto scorta in Egitto organizzato per impedire alla magistratura italiana di arrestarlo, smascherarlo e mettere in condizione i terroristi di fargli pagare caro il suo doppio gioco. Nell’ansia di non perdere l’occasione per sputtanare Pollari, D’Amico l’ha fatta fuori dal vaso. Perché è facile pronosticare che difficilmente Abu Omar rimetterà piede nel nostro Paese! Se venisse sarebbe arrestato dai magistrati milanesi desiderosi indifferentemente di dimostrare sia il rapimento ad opera di Cia e Sismi, sia il suo doppio gioco a favore degli Usa. Non ci vuole una grande scienza per immaginare che d’ora in avanti Abu Omar avrà solo una preoccupazione. Quella di negare di essere mai stato un infiltrato. E proclamare ai quattro venti di essere stato vittima del terrorismo di stato dell’America di Bush e dell’Italia dell’allora Silvio Berlusconi. Ma Abu Omar si gioca la pelle. Giuseppe D’Avanzo solo la sua ossessione. Il primo può essere aiutato col silenzio. Il secondo col Prozac.

Tuesday, February 13, 2007

Sveglie e campane

L'Arcigay ha annunciato che il 10 marzo terrà una grande manifestazione a Roma per lanciare la campagna in favore della modifica del disegno di legge sui “Dico” considerato “assolutamente insufficiente". Ci sarà una marcia per le vie della Capitale. Ci saranno i canti ed i balli tipici dei “Gay pride”. Ma, soprattutto, ci sarà la novità rappresentata dal fatto che ogni partecipante alla manifestazione porterà al collo una sveglia. Ed al momento opportuno farà scattare la suoneria per significare “sveglia, è l'ora dei diritti”. Ora, i soliti eterosessuali in preda ad ossessione omofobica ed antigay hanno già incominciato ad ironizzare su questa particolarità della manifestazione. Ed hanno proposto di aggiungere alle sveglie al collo anche gli anelli al naso. Ma la loro, diciamo la verità, non sembra una grande trovata. Che vuoi ironizzare quando per i partecipanti ai gay pride anelli, collanine e perline fanno parte degli accessori d'ordinanza di ogni buon manifestante sessualmente corretto? Più temibile, invece, appare l'idea dei gruppi più oltranzisti del mondo cattolico di reagire alla trovata degli omosessuali dichiarati seguendo l'esempio di Pier Capponi e della sua storica minaccia : “Voi suonerete le vostre sveglie, noi suoneremo le nostre campane!”. La faccenda è seria. Un po' perché a Roma le campane abbondano. E un po' perché tra i campanari in abito talare anche i gay, come le campane romane, sono in abbondanza. C'è il rischio, insomma, che molti suonino contemporaneamente sveglie e campane. E che la contrapposizione tra gay e cattolici serva soltanto a risvegliare lo spirito plebeo della fascia grigia del popolo romano. Quella di Giuseppe Gioacchino Belli e del “co sti canti e co sti soni, avete rotto li cojoni”.